La crisi climatica che, secondo molte fonti stiamo vivendo, oggi non è ancora evidente. Secondo uno studio tutto italiano, frutto della collaborazione delle Università di Milano (INFN1 e DISAA2) e di Padova (INFN) e dell’Accademia Nazionale delle Scienze di Verona, che ha passato in rassegna la bibliografia recente di alcuni eventi meteorologici estremi, così come definiti dalla IPCC3, come quelli legati  a precipitazioni, uragani, tornado, alluvioni e siccità e li ha confrontati con le serie temporali, dimostra che non vi sono evidenze di un aumento della loro intensità e/o frequenza rispetto al noto aumento di temperatura media del pianeta.

Quando si tratta di eventi meteorologici estremi, è importante distinguere tra l’evidenza statistica dell’aumento di tali eventi e l’attribuzione antropica. L’evidenza statistica si basa su osservazioni storiche e tendenze nel tempo, mentre l’attribuzione antropica utilizza modelli probabilistici e simulazioni, che spesso non riescono a riprodurre accuratamente tutte le variabili coinvolte macro e microfisiche.

La confidence nelle osservazioni di eventi estremi dipende dalla qualità e dalla quantità dei dati, che variano nelle diverse regioni del globo e per i diversi tipi di eventi estremi e variabili meteorologiche. A questo proposito, è innanzitutto necessario sottolineare la difficoltà di reperire serie storiche di dati globali attendibilii: spesso ci si deve limitare a osservazioni più locali, effettuate in quelle aree in cui storicamente i fenomeni sono stati meglio osservati e registrati e i cui dati sono quindi più affidabili e rappresentativi.

Nel complesso, come riporta l’IPCC, i più grandi cambiamenti climatici estremi del mondo si verificano nelle misurazioni giornaliere della temperatura, comprese le ondate di calore. L’analisi globale condotta da Perkins-Kirkpatrick e Lewis ha mostrato, per il periodo 1951-2017, un significativo aumento dei valori annuali dei giorni di ondate di calore, della durata massima delle ondate di calore e del calore cumulativo, mentre le tendenze globali dell’intensità delle ondate di calore non sono significative. Anche le precipitazioni estreme appaiono essere in aumento, ma c’è una grande variabilità spaziale e le tendenze osservate nella siccità, eccetto che in alcune regioni, sono ancora incerte.
A partire dagli anni ’70 sono stati rilevati forti aumenti nella frequenza e nell’attività dei cicloni tropicali nell’Atlantico settentrionale. Mentre vi sono prove limitate di cambiamenti, a partire dalla metà del XX secolo, negli estremi associati ad altre variabili climatiche.

Mentre l’aumento della frequenza e della persistenza delle ondate di calore è facilmente spiegabile con l’aumento delle temperature globali, l’aumento osservato nell’Atlantico settentrionale dei cicloni tropicali, oltre ad avere ragioni poco chiare come indicato anche dalla stessa IPCC, sembra essere soltanto un fenomeno locale e sostanzialmente dovuto a una migliore segnalazione degli eventi come sostenuto dal NOAA4. In altre aree del pianeta si osserva una diminuzione degli stessi fenomeni e in altre ancora non si osserva alcuna tendenza, portando le valutazioni globali ad orientarsi verso una sostanziale invarianza temporale.

Per quanto riguarda l’apparente aumento dei danni economici causati da eventi estremi, la stessa IPCC, assume ancor una volta, una posizione molto prudente, arrivando a sostenere che la crescita delle perdite economiche dovute ai disastri climatici e metereologici sia da mettere in relazione all’aumento stesso dell’esposizione ai rischi di persone e risorse. Le tendenze a lungo termine delle perdite dovute a questo tipo di  disastri, normalizzate per tenere conto dell’aumento della ricchezza e della popolazione, non sono state finora attribuite direttamente al cambiamento climatico, anche se finora non è stato escluso che il cambiamento climatico possa aver contribuito.
Uno studio dettagliato sulla correlazione tra vulnerabilità e ricchezza conclude al contrario che esiste è una chiara tendenza alla diminuzione della vulnerabilità sia umana che di beni, che mostra una proporzionalità diretta rispetto alla condizione economica, con tassi medi globali di mortalità e di perdita economica che sono diminuiti dal 1980-1989 al 2007-2016 nella popolazione di reddito più alto rispettivamente di 6,5 e quasi 5 volte, con una chiara correlazione negativa tra vulnerabilità e ricchezza, che è più forte nella popolazione ai livelli di reddito più bassi.


1INFN – Istituto di Fisica Nucleare
2DISAA – Dipartimento di Scienze Agrarie ed Ambientali
3IPCC – The Intergovernmental Panel on Climate Change
4NOAA – National Oceanic and Atmospheric Administration


Uragani

L’effetto degli uragani sulla circolazione globale è rilevante, come evidenziato da diversi studi che mostrano una significativa riduzione del flusso della Corrente del Golfo data dal passaggio degli uragani su di essa.

Pertanto l’osservazione degli uragani di una certa intensità diventa di grande importanza per comprendere come il noto aumento di temperatura globale abbia un effetto su frequenza ed intensità dei fenomeni. Ogni anno si osservano 80-100 tempeste tropicali in tutto il mondo e circa la metà di queste raggiunge la forza di un uragano, mentre soltanto un quarto di esse, raggiunge la potenza di un forte uragano.
Il termine generico “ciclone tropicale” può essere usato per descrivere tempeste tropicali, uragani e tifoni. Sebbene la maggior parte completi il proprio ciclo di vita senza toccare la terraferma, ogni anno molti di essi causano danni catastrofici e perdite di vite umane abbattendosi sulle zone costiere in particolare su quelle degli Stati Uniti.
Tanto che è stato stimato, anche storicamente, che gli uragani che devastano gli Stati Uniti rappresentano circa il 60% di tutti i danni economici causati da catastrofi in tutto il mondo e che oltre l’80% di questi danni proviene da uragani di grandi dimensioni.
Per questo motivo, negli USA, gli uragani sono entrati nelle valutazioni per le politche  di mitigazione ed adattamento relativo ai cambiamenti climatici.

Ad oggi, le osservazioni globali non mostrano alcuna tendenza significativa (vedi, Fig. 1), non solo nel numero ma anche nell’energia accumulata dagli uragani. I dati sono sostenuti da diversi documenti specifici relativi agli Stati Uniti ed altre regioni del globo, che riportano la tendenza a partire da oltre 160 anni fa.

Fig. 1 Trend storico della frequenza dei Cicloni Tropicali e dell’energia accumulata (http://climatlas.com/tropical/)

Le registrazioni esistenti delle tempeste tropicali o del numero di uragani nell’Atlantico mostrano effettivamente una pronunciata crescita del numero di cicloni tropicali, come messo in evidenza dall’IPCC; tuttavia, come analizzato dal NOAA in serie temporali molto più lunghe (> 100 anni) dell’attività degli uragani, la densità dei rapporti di navigazione atlantica dell’Atlantico è stata relativamente bassa durante i primi decenni di questo periodo (dal 1878 a oggi) e pertanto se le tempeste dell’era moderna (dopo il 1965) si fossero ipoteticamente verificate in quei decenni, un numero considerevole di tempeste probabilmente non sarebbero state osservate dalla rete di osservazione navale.

Il NOAA, dopo aver normalizzato le serie temporali per tenere conto delle minori capacità di osservazione del passato, conclude che resta solo una piccola tendenza positiva al rialzo delle tempeste tropicali verificatesi tra il 1878 al 2006. I test statistici indicano comunque che questa tendenza non è significativamente distinguibile da zero.
Inoltre Landsea et al. hanno dimostrato che la tendenza all’aumento del numero di tempeste tropicali dell’Atlantico è quasi interamente dovuta all’aumento delle tempeste di breve durata (< 2 giorni), che molto probabilmente sono state trascurate nelle prime parti del record, in quanto avrebbero avuto meno occasioni di incontrare il traffico navale.
Se consideriamo gli uragani nel bacino atlantico, piuttosto che tutte le tempeste tropicali, il risultato è simile: il numero di uragani riportato durante gli anni 1860 e 1880 era simile a quello attuale e anche in questo caso non c’è una tendenza positiva significativa rispetto al passato. L’evidenza di una tendenza all’aumento è ancora più debole per gli uragani che colpiscono le coste degli Stati Uniti, che mostrano anzi una tendenza leggermente negativa a partire dal 1900.
La situazione per i vari record di uragani atlantici a lungo termine e i relativi indici è riassunta nella Fig. 2: mentre la temperatura media dell’Atlantico tropicale e le SST mostrano tendenze al riscaldamento pronunciate e statisticamente significative (curve verdi), il record di uragani che hanno colpito le coste degli Stati Uniti (curva arancione) non mostra alcuna tendenza significativa. Il record di uragani non corretti (curva blu) mostra un aumento significativo degli uragani atlantici a partire dai primi anni del 1900.
Tuttavia, se corretto con la stima delle tempeste rimaste in mare e probabilmente “mancate” nel periodo pre-satellite, non si registra un aumento significativo degli uragani atlantici dalla fine del XIX secolo (curva rossa).

Sebbene dall’inizio degli anni ’70 si sia registrato un aumento degli uragani che colpiscono le coste degli Stati Uniti e del numero di uragani nel bacino atlantico, si può concludere che questi recenti aumenti (vedi fig. 2) non sono rappresentativi del comportamento osservato nelle registrazioni secolari. In breve, i dati storici sulla frequenza degli uragani nell’Atlantico non forniscono prove convincenti di un sostanziale aumento a lungo termine indotto dal riscaldamento.
La NOAA conclude quindi che “è prematuro concludere con elevata attendibilità che l’aumento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera, dovuto alle attività umane, abbia avuto un impatto rilevabile sull’attività degli uragani del bacino atlantico“.
Pertanto l’unico modo pratico e comprovato per prevenire la perdita di vite umane e i danni alle cose e quindi per una corretta campagna di salvaguardia della popolazione, è quello di introdurre standard edilizi adeguati e di mantenere un alto livello di vigilanza per questi fenomeni.

Fig. 2 Trend storico degli indicatori normalizzati della zona tropicale Atlantica (1880-2022)

Tornado

Un tornado è un vortice che si estende verso l’alto da una zona molto vicina alla superficie fino alla base di una nube, tipicamente un cumulonembo, nella quale si ha una forte corrente di convezione. Questo vortice quando è abbastanza costante e veloce causa dei danni in superficie e nelle zone interessate dal suo passaggio.
La scala Fujita migliorata (o scala EF) classifica l’intensità dei tornado in sei categorie, da zero a cinque. Sia i temporali a multicella che quelli a supercella sono in grado di produrre tornado. Le supercelle tuttavia sono di gran lunga le più pericolose: oltre il 20% dei tornado a supercella sono potenzialmente in grado di provocare danni catastrofici EF-4/EF-5.

Lo studio italiano e oggetto di questo articolo, ha preso in considerazione le serie temporali di tornado degli Stati Uniti anche perchè sono le più lunghe e si prestano quindi alle analisi di tendenza. Sia IPCC che NOAA affermano nei loro rapporti che un tornado può essere inserito in una serie temporale di tornado soltanto se è stato osservato direttamente oppure se sono state osservate tracce del suo passaggio (es. torsione su radici e chiome di alberi, abbattimento di cartelli stradali, ecc.).

Dal momento che i tornado hanno una durata molto breve e sono essenzialmente imprevedibili molti sfuggono alla rilevazione in particolare quando attraversano territori disabitati. E quindi probabile che molti tornado significativi negli Stati Uniti non siano stati rilevati poiché l’area interessata dalle loro traiettorie era scarsamente popolata all’inizio del secolo.

Neglli ultimi decenni si è registrato una aumento del numero di segnalazione di tornado, sia per l’aumento della copertura radar Doppler, sia per la crescita della popolazione, creando un apparente crescita della frequenza dei tornado.
Tuttavia, consultando le serie temporali (vedi Fig. 3), ci si rende conto che l’aumento del numero di tornado dal 1950 è quasi interamente dovuto a eventi deboli (EF0-EF1 nella scala Fujita avanzata), ovvero quegli eventi che in passato in molti casi sfuggivano all’osservazione, oggi sono più facilmente identificabili grazie a una vasta gamma di sistemi che vanno dalle telecamere dei cellulari ai satelliti e ai radar Doppler. Al contrario, i tornado da forti a violenti (categorie da EF-3 a EF-5 della scala Fujita avanzata), probabilmente segnalati anche prima dell’era dei radar Doppler, non mostrano alcun aumento nel tempo.

Fig. 3 Conteggio annuale di tutti i tornado (in alto) registrati negli USA e (in basso) solo di quelli più forti. (Fonte: Dati NOAA tracciati utilizzando il layout proposto da H. Masoomi, J.W. van de Lindt., 2018)

Alla domanda se il cambiamento climatico influenzi il verificarsi dei tornado, il NOAA risponde che al momento non è possibile dare alcuna risposta e che sono necessarie ulteriori ricerche poiché questi eventi si verificano su scale molto piccole, il che rende difficili le osservazioni e la costruzione di modelli di analisi efficaci.
Proiettare l’influenza futura dei cambiamenti climatici su questi eventi può essere complicato anche dal fatto che alcuni fattori di rischio possono aumentare con i cambiamenti climatici, mentre altri possono diminuire.
Come detto infatti i tornado sono fenomeni meteorologici di brevissima durata, che si collocano su scale temporali di secondi e minuti e su scale spaziali ridotte. Al contrario, le tendenze climatiche dispiegano i loro effetti su archi temporali molto più ampi (anni, decenni o millenni) e interessano vaste aree del globo.
Inoltre, i modelli climatici non sono in grado di risolvere i tornado o i singoli temporali. Possono indicare cambiamenti su larga scala in tre dei quattro “ingredienti” che favoriscono i temporali forti (umidità, instabilità e wind shear), ma la presenza di alcuni fattori favorevoli non garantisce i tornado.

E possibile concludere che in generale le nostre conoscenze fisiche indicano segnali contrastanti: alcuni “ingredienti” possono aumentare (instabilità), mentre altri possono diminuire (wind shear), in un mondo caratterizzato da temperature medie globali più calde. L’altro ingrediente chiave (la portanza della tempesta) e, in misura diversa, l’umidità, il runaway e il wind shear, dipendono principalmente dai modelli giornalieri e spesso anche dal tempo locale minuto per minuto.
L’equazione di Clapeyron ci dice che il riscaldamento globale accertato con i termometri
(aumento della temperatura globale dell’aria a due metri dal suolo di 7 decimi di grado per secolo) comporta un maggior contenuto atmosferico di vapore acqueo, ma è difficile mettere in relazione questo aumento con i fenomeni convettivi o più in generale con le mappe globali dell’intensità delle precipitazioni e con l’andamento dei ghiacciai, la cui variabilità nei decenni è l’effetto di un gran numero di fattori.

Precipitazioni globali ed eventi estremi di precipitazione

Le precipitazioni rappresentano un segmento chiave per comprendere il ciclo energetico  dell’energia e della materia del nostro pianeta. Inoltre, studiare il vapore acqueo è molto importante in chiave climatica perchè esso, essenedo il principale gas serra è responsabile del 51% dell’intero effetto serra. In questo contesto, le precipitazioni  non solo scaricano l’energia accumulata in atmosfera, ma modulano l’effetto serra agendo sul tempo di residenza del vapore acqueo nell’atmosfera.
I dati globali indicano un aumento delle precipitazioni totali annue che a prima vista potrebbe sembrare coerente con l’aumento delle temperature globali ed il conseguente aumento dell’acqua precipitabile immagazzinata nel serbatoio atmosferico. A sostegno di questa analisi, la serie temporale annuale delle precipitazioni globali 1901-2018 del dataset gridded land-based precipitation (Hadex3), derivate da osservazioni giornaliere in situ, mostrano che le preciptazioni globali sono in aumento dal 1970 (Fig. 4).

Fig. 4 – Anomalia annuale globale delle precipitazioni (differenza in mm rispetto alla media 1961-1990). (Elaborazione effettuata su dati provenienti dal dataset Hadex3 [29]-figura S27 dei materiali supplementari)
E’ importante stabilire se l’aumento delle precipitazioni annue si sia tradotto in un aumento degli eventi estremi di precipitazione con un effetto simile a quello registrato per le ondate di calore, la cui frequenza è aumentata a causa dell’aumento delle temperature globali.
A tal fine, è importante affermare che esistono molte definizioni possibili per gli eventi estremi di precipitazione, dagli approcci basati sui periodi di ritorno e sui picchi sopra la soglia, agli indici che catturano la durata o l’intensità. Inoltre, gli estremi possono anche essere definiti su un’ampia gamma di scale spaziali e temporali.

L’analisi in particolare si è concentrata principalmente sulle precipitazioni massime giornaliere per le stazioni terrestri osservate a livello globale e per grandi regioni. Ciò a motivo del fatto che, non solo i dati sub-giornalieri sono spesso troppo brevi o di qualità insufficiente, ma anche perchè i cambiamenti nell’entità degli estremi sub-giornalieri emergono più lentamente rispetto a quelli degli estremi giornalieri (Barbero et al.) come dimostra uno studio che ha analizzato l’andamento delle precipitazioni estreme giornaliere e orarie su un’ampia rete di stazioni negli Stati Uniti nel periodo 1950-2011.
Inoltre, per una corretta interpretazione dei dati sulle precipitazioni estreme, è necessario tenere conto del fatto che il loro rilevamento accurato dipende in larga misura dall’accuratezza delle misure pluviometriche che spesso sono difficili da rendere omogenee data la loro elevata variabilità spaziale e temporale. È probabile quindi che i dati non siano esenti da disomogeneità derivanti in particolare da cambiamenti nel tipo di strumentazione utilizzata, poiché i diversi pluviometri hanno diverse perdite di vento, di bagnatura e di evaporazione. Inoltre, il sensore dei pluviometri automatici (meccanici o elettronici) può essere bloccato da una vasta gamma di fenomeni, come l’accumulo di sporcizia o la presenza di nidi di insetti. Questi fenomeni sono causa di numerose imprecisioni.
Relativamente all’intensità degli eventi estremi di precipitazione giornaliera, Papalexiou e Montanari hanno analizzato gli eventi estremi di precipitazione nel periodo 1964-2013 su un totale di 8730 stazioni.
L’analisi mostra un aumento dell’intensità nel 12,9% (tra l’11,7 e il 13,9%) delle stazioni globalmente e un calo nel 9,8% (tra il 9 e l’11,4%), mentre il 77,3% delle stazioni non mostra tendenze significative.
Questi dati confermano sostanzialmente quelli presentati da Westra et al., che hanno analizzato i trend delle precipitazioni massime annuali globali di un giorno per il periodo dal 1900 al 2009 (110 anni in totale). Il lavoro, relativo a un totale di 8326 stazioni al suolo che i ricercatori hanno ritenuto di di “alta qualità”, ha portato alla conclusione che circa il 2% delle stazioni mostrano una diminuzione delle precipitazioni estreme, l’8% un aumento e il 90% non presenta alcuna tendenza.
I risultati di questa analisi sono stati recentemente confermati dai risultati sulle precipitazioni massime annuali di un giorno presentati dallo stesso gruppo di ricercatori  che si riferiscono al periodo 1950-2018 ed evidenziano che:

  • per il periodo 1950-2018, il 9,1% delle stazioni mostra una tendenza all’aumento statisticamente significativa, che è molto più alto di quanto ci si potrebbe aspettare dalla sola casualità. Al contrario, la percentuale di stazioni che mostrano un trend decrescente statisticamente significativo è solo di circa il 2,1%, paragonabile a quanto ci si aspetterebbe dal caso casuale
  • per l’area mediterranea, solo il 4,7% delle stazioni mostra un trend crescente statisticamente significativo, mentre il 3,8% mostra un trend decrescente significativo (Fig. 5)
Fig. 5 – Percentuale di stazioni con tendenze stazionarie, statisticamente significative all’aumento e statisticamente significative alla diminuzione delle massime annuali di precipitazione a 1 giorno in base al test di Mann-Kendall nel periodo 1950-2018. Elaborazione effettuata sui dati di Q. Sun, X. Zhang, F. Zwiers, S.Westra,L.V.Alexander. (2021). https://doi.org/10.1175/JCLI-D-19-0892.1

I risultati per il Nord Europa e l’area mediterranea sono coerenti con l’attuale fase climatica caratterizzata da valori positivi della NAO che determinano un’intensificazione delle Westerlies che portano sistemi frontali sul Nord Europa mentre il Mediterraneo dovrebbe essere meno interessato da tracce temporalesche.
I risultati di stazionarietà evidenziati da Sun et al. per il Mediterraneo sono confermati anche per l’area italiana da indagini più dettagliate condotte da Libertino et al. dove sono state considerate le precipitazioni massime per durate di 1, 3, 6, 12 e 24 ore limitate al periodo 1928-2014, in cui almeno 50 stazioni sono contemporaneamente attive ogni anno. Sono state selezionate solo le serie temporali con almeno 30 anni di dati continui o non continui, ottenendo così 1.346 stazioni. Le conclusioni di questo lavoro sono che “per quanto riguarda la frequenza, i risultati mostrano che tutte le tendenze osservate non sono significative, cioè sono compatibili con l’ipotesi di un clima stazionario.[…]. Per quanto riguarda l’intensità degli eventi, non è possibile individuare una chiara tendenza nell’entità delle precipitazioni estreme a scala nazionale“.
Il lavoro citato per l’Italia, che è l’area del mondo più nota agli autori, è particolarmente interessante in quanto ha analizzato serie di dati giornalieri o orari raccolti dal Servizio Idrografico del Ministero dei Lavori Pubblici, che raccoglieva dati omogenei su tutto il territorio nazionale. Questo servizio è stato purtroppo abolito nel 1998 e le sue competenze sono state trasferite alle Regioni, generando così 20 reti regionali, ciascuna con un proprio standard.
Molto spesso la tendenza a moltiplicare le reti di misurazione operativa, porta a livelli di disomogeneità sempre più rilevanti. Questo è esattamente il contrario di ciò che si dovrebbe fare se si fosse veramente preoccupati della tendenze attuali del clima. Ciò che servirebbe veramente è poter disporre di reti omogenee su tutto il territorio  mondiale, in analogia con quanto è stato fatto nel caso del monitoraggio degli oceani con il sistema di boe ARGO.
Lo studio mostra che, mentre a livello globale si osserva un aumento delle precipitazioni totali annue, l’aumento di precipitazioni estreme si osserva soltanto per un numero limitato di stazioni e con forti differenze regionali. L’assenza di tendenze generalizzate alla crescita delle precipitazioni estreme può essere spiegata dal fatto che la genesi delle precipitazioni estreme richiede:

  • la presenza di una fonte rilevante di umidità nello strato limite,
  • una morfologia del rilievo, strutture circolatorie a diverse scale e profilo termico verticale favorevoli alla risalita della massa d’aria con sviluppo di nubi di spessore sufficiente (ad esempio, nubi cumulonembi e nembostrati)
  • caratteristiche microfisiche dell’ambiente nuvoloso favorevoli all’ingrandimento delle goccioline o dei cristalli per dare luogo a precipitazioni.

Alluvioni e siccità

Nello studio sono presi in considerazioni alluvioni e siccità perchè sono importanti indicatori della risposta ai cambiamenti dei regimi di precipitazione.

Inondazioni

Per quanto riguarda le inondazioni, si può dire che, sebbene a livello globale si osservino prove di un aumento delle precipitazioni totali annue, le prove corrispondenti di un aumento delle inondazioni rimangono elusive e un lungo elenco di studi mostra poche o nessuna prova di un aumento della portata delle inondazioni,
Alcuni studi hanno riscontrato anzi più prove di diminuzione che di aumento.
Sharma et al. elencano alcune ragioni della diminuzione delle magnitudo delle inondazioni, individuando i meccanismi responsabili, ovvero la diminuzione:

  • dell’umidità del suolo antecedente alla precipitazione
  • dell’estensione dei temporali
  • dello scioglimento delle nevi.

Diversi studi paleo-idrologici mostrano che la frequenza degli eventi alluvionali in Europa è stata significativamente più bassa durante le fasi calde (ad esempio, l’optimum romano e quello medievale) rispetto a quelle fredde (ad esempio, la Piccola Era Glaciale), come attestato, ad esempio, da Wirth et al. che hanno lavorato sui dati delle Alpi centrali. Questa evidenza è supportata anche dall’articolo firmato da un nutrito gruppo di climatologi storici, tra cui gli italiani Bertolin e Camuffo, in cui viene riportata la seguente affermazione: “i recenti cambiamenti nella variabilità delle frequenze delle alluvioni non sono eccezionali se confrontati con la frequenza delle alluvioni degli ultimi 500 anni e non mostrano una tendenza complessiva simile a quella ampiamente citata dell’hockey-stick (mazza da hockey) per le temperature“.
Una conclusione simile si rileva dal progetto SPHERE, che si riferisce alla Spagna nord-orientale. L’evidenza di un maggior numero di eventi alluvionali durante la Piccola Era Glaciale è confermata anche da Wilhelm et al., che esaminando le inondazioni nelle Alpi francesi mediterranee degli ultimi 1400 anni hanno scoperto che le precipitazioni estreme e le inondazioni sono meno comuni e meno estreme nei periodi caldi rispetto a quelli freddi.
In particolare, gli autori hanno trovato una bassa frequenza di inondazioni durante il periodo caldo medievale ed eventi più frequenti e intensi durante la piccola era glaciale.
Yiou et al., analizzando l’andamento delle inondazioni fluviali in Boemia per i fiumi Elba e Moldava hanno mostrato che la tendenza della frequenza e dell’intensità è generalmente in diminuzione nel XX secolo rispetto al XIX secolo. Conclusioni simili conclusioni simili sono state raggiunte da Mudelsee et al. per l’Elba e l’Oder in  Germania.
Diodato et al. hanno ricostruito gli eventi idrologici dannosi (DHE) in Italia per il periodo ottobre-aprile. aprile, evidenziando che durante il periodo caldo medievale i DHE sono stati meno frequenti, mentre sono prevalsi eventi più frequenti e intensi.
Infine, a partire dalla metà del XIX secolo, con l’uscita dalla LIA, si è osservato un declino delle DHE, soprattutto negli ultimi decenni.
Sempre per l’Italia, un articolo di Taricco et al. ricostruisce le portate del fiume Po negli ultimi 2200 anni, evidenziando portate molto basse fino al 1100, portate molto elevate durante la LIA con un massimo intorno al 1500 e una successiva diminuzione delle portate dopo il 1850.
In conclusione, anche se si osserva un aumento delle precipitazioni totali annue a livello globale, questo non si traduce in un aumento dell’intensità o della frequenza delle inondazioni.

Siccità

La siccità è un fenomeno complesso, difficile da monitorare e definire. A seconda delle variabili utilizzate per caratterizzarla e dei sistemi o settori che ne sono colpiti, la siccità può essere classificata in diverse tipologie:

  • meteorologica (deficit di precipitazioni)
  • agricola (ad es. riduzione della resa delle colture o fallimento delle stesse, in relazione al deficit di umidità del suolo),
  • ecologica (ossia azione lo stress idrico delle piante che può provocarne la mortalità)
  • siccità idrologica (ad esempio, carenza d’acqua nei corsi d’acqua o nei serbatoi come laghi, lagune e acque sotterranee).

L’IPPC, nella sua AR5, riporta a pagina 44 che “le conclusioni relative alle tendenze globali della siccità globale a partire dagli anni ’70 non sono più supportate” e diversi studi in effetti non mostrano alcun aumento dei principali indici di siccità globale.

Hao et al. hanno analizzato le serie temporali relative al periodo 1982-2012 del Global Integrated Drought Monitoring and Prediction System (GIDMaPS) che utilizza tre indicatori di siccità per il monitoraggio e la previsione:

  • Standardized Precipitation Index (SPI)
  • Standardized Soil Moisture Index (SSI)
  • Multivariate Standardized Drought Index (MSDI).

SPI e SSI sono indicatori di siccità meteorologica e agricola, rispettivamente. Gli autori evidenziano la tendenza alla diminuzione della percentuale di superficie colpita dalla siccità, come mostrato nella Fig. 6.

Fig. 6 – Frazione della terra globale in condizioni di siccità D0 (anormalmente secca), D1 (moderata), D2 (grave), D3 (estrema) e D4 (eccezionale) (da Z. Hao, A. AghaKouchak, N. Nakhjiri et al. (2014). https://doi.org/10.1038/sdata.2014.1)

Conclusioni simili sembrano essere raggiunte sulla siccità meteorologica e idrologica dalla bozza IPCC AR6 oggi disponibile, mentre un po’ più di preoccupazione viene espressa sulla siccità agricola ed ecologica.
Kogan et al. hanno analizzato le tendenze globali della siccità agricola utilizzando il metodo VH (Vegetation Health) basato su osservazioni satellitari per il periodo 1981-2018. I loro risultati mostrano che per l’intero globo, gli emisferi e i principali Paesi produttori di cereali (Cina, Stati Uniti e India) la siccità non si è intensificata nè si è espansa nel corso di 38 anni presi in considerazione nello studio, mentre l’anomalia della temperatura globale è aumentata. La conclusione degli autori è che, poiché la siccità non si è intensificata né espansa durante il recente riscaldamento globale, è probabile che nei prossimi anni la sicurezza alimentare rimanga al livello dell’ultimo decennio.
Un fattore di notevole importanza per la siccità agricola, spesso trascurato nelle analisi, è il fatto che il consumo di acqua delle colture è direttamente proporzionale alla quantità del prodotto finale: il mais ha bisogno di 370-910 kg di acqua per ogni kg di grano prodotto, il grano di 590-1700 e il riso di 635-1700 a seconda della varietà. Si può quindi facilmente dedurre che, poiché le rese globali di mais, grano, riso, soia e orzo sono aumentate in media del 217-297% dal 1960 a oggi (si veda il paragrafo successivo) e poiché la superficie coltivata è rimasta stabile per circa 50 anni intorno a 1,5 miliardi di ettari, anche il consumo idrico delle colture ha seguito un aumento simile.
Per quanto riguarda la siccità ecologica, vanno considerati due fenomeni contrastanti che agiscono sul consumo idrico della vegetazione naturale:

  • l’aumento alle latitudini medio-alte dovuto all’allungamento della stagione di crescita a causa dell’aumento della temperatura globale
  • la diminuzione in modo generalizzato a causa di livelli più elevati di CO2 (un aumento dei livelli di concentrazione di CO2 atmosferica riduce il numero di stomi per unità di superficie fogliare – indice stomatico – e induce la chiusura stomatica, riducendo il consumo idrico della pianta.

Gli autori concludono che non vi sono prove che le aree colpite dai diversi tipi di siccità siano in aumento.

Inverdimento e produzione agricola globale

La produttività degli ecosistemi naturali

E’ stato analizzato inoltre un altro parametro molto importante che viene utilizzato come un indicatore importante della risposta ai cambiamenti delle variabili metereologiche (temperatura, radiazione solare globale, ecc.), ovvero la produttività degli ecosistemi naturali.

Da questo punto di vista, si può affermare che la biomassa vegetale globale è cambiata in modo significativo negli ultimi decenni, con un fenomeno noto come “inverdimento globale” che indica il significativo aumento della produttività degli ecosistemi (agricoli e naturali) come è stato evidenziato grazie al monitoraggio satellitare.

Lo studio di Walker et al. afferma che alla base di questo fenomeno globale c’è l’aumento della concentrazione di CO2 atmosferica che sta incrementando la fotosintesi su scala fogliare e l’efficienza intrinseca di utilizzo dell’acqua.

La conseguenza diretta di questi fenomeni è l’aumento della crescita delle piante, della biomassa vegetale e della materia organica del suolo.

inoltre i dati satellitari mostrano tendenze di “inverdimento” su gran parte del pianeta  che stanno facendo arretrare i deserti in tutto il mondo (sia i deserti caldi delle latitudini tropicali che i deserti freddi delle latitudini più settentrionali).

La rilevanza del greening è confermata da Campbell che, utilizzando le registrazioni di solfuro di carbonile come proxy dell’attività fotosintetica, ha evidenziato un aumento del 31% della produzione primaria lorda nel corso del XX secolo.

Inoltre, Wang et al. hanno analizzato la produttività ecosistemica globale per il periodo 1982-2016 e hanno mostrato che le anomalie positive più rilevanti si registrano in coincidenza di precipitazioni abbondanti, a dimostrazione dell’importanza della limitazione idrica per la produttività degli ecosistemi.

Mentre Zeng et al., utilizzando un modello di ciclo del carbonio terrestre, hanno dimostrato che l’agricoltura è responsabile di circa il 50% dell’aumento dell’assorbimento di CO2, il che dimostra il suo ruolo eco-sistemico essenziale.

In realtà, l’agricoltura emette solo una piccola frazione di quello che prima assorbiva con la fotosintesi. L’agricoltura assorbe ogni anno 7,5 GT di carbonio, che salgono a 12 GT se si considerano anche i pascoli, mentre le emissioni complessive del settore agricolo ammontano a 1,69±0,38 GT. Di conseguenza, l’agricoltura emette il 14,1±0,03% di quanto veniva assorbito in precedenza.

La rilevanza globale dell’inverdimento globale è stata dimostrata dalla simulazione effettuata da un gruppo di ricerca australiano con il modello CABLE (Community Atmosphere Biosphere Land Exchange) che illustra l’andamento globale della Produttività Primaria Lorda (GPP) dal 1900 al 2020 come risultato di (a) effetto fisiologico dei cambiamenti del livello fogliare direttamente stimolati dall’anidride carbonica, (b) effetto legato all’aumento complessivo della massa fogliare e (c) effetto del cambiamento climatico. Complessivamente, l’aumento della GPP dal 1900 al 2020 è stimato al 30%, mentre si stima che raggiungerà il 47% se la CO2 raddoppiasse (560 ppmv).

Anche se l’idea prevalente è che siamo di fronte a un fenomeno positivo che dimostra la grande capacità degli ecosistemi di adattarsi alla variazione delle forzanti naturali e antropogenici, non dobbiamo trascurare il fatto che le risposte degli ecosistemi alla CO2 sono complesse o confuse dai cambiamenti concomitanti di molteplici agenti del cambiamento globale, e le prove di una riserva (sink) di carbonio terrestre guidato dalla CO2 possono talvolta apparire contraddittorie. Ad esempio, l’essiccazione estiva del suolo è esacerbata dall’inverdimento primaverile della vegetazione che aumenta l’evapotraspirazione e quindi riduce l’umidità primaverile del suolo.

In ogni caso, il global greening è un fenomeno da non trascurare e ci porta a riflettere sulle implicazioni positive dell’aumento dei livelli atmosferici di CO2.

A questo proposito, secondo i dati di Campbell et al. e Haverd et al., in assenza di greening guidato dalla CO2 avremmo un calo rilevante della produzione agricola con impatti negativi significativi sulla sicurezza alimentare globale. Mariani ha stimato una diminuzione del 18% della produzione agricola di mais, riso, grano e soia in caso di ritorno della CO2 ai livelli preindustriali.

Tuttavia, questo risultato è stato ottenuto con un modello che non considera gli effetti negativi sulla resa delle colture di eventi estremi come siccità, eccesso di precipitazioni, gelo e ondate di calore.

Sulla base della recrudescenza di eventi estremi, dei cambiamenti nel regime pluviometrico, dell’aumento delle temperature e dell’effetto di inquinanti come l’ozono, la sintesi del capitolo 7 dell’AR5 conclude che “Gli effetti dei cambiamenti climatici sulla produzione di colture e alimenti terrestri sono evidenti in diverse regioni del mondo (alta confidenza). Gli impatti negativi delle tendenze climatiche sono stati più comuni di quelli positivi”.

Tuttavia, questa affermazione non considera adeguatamente i due fattori seguenti:

  1. l’adattabilità del sistema agricolo globale unita alla sua estrema flessibilità che si traduce nella capacità di adottare rapidamente innovazioni nella genetica (nuove varietà più adatte all’ambiente) e nelle tecniche colturali (irrigazione, fertilizzazione, diserbo, gestione di parassiti e malattie, ecc.) Queste innovazioni tecnologiche sono il risultato dei forti progressi nella scienza delle colture avvenuti dall’inizio del XIX secolo e la cui diffusione è cresciuta fortemente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
  2. l’effetto di compensazione legato al fatto che l’agricoltura si svolge su un’area molto vasta (tutti i continenti tranne l’Antartide) che coinvolge due emisferi, garantendo così due raccolti all’anno. Ciò si traduce nel fatto, già evidenziato nel Settecento da Adam Smith e da Giovanni Targioni Tozzetti, che in un certo anno i cali di resa registrati in un’area a causa di eventi estremi (siccità, piogge eccessive, ondate di calore, ecc.) sono controbilanciati dagli aumenti di resa che si verificano in altre aree.

La capacità di adattabilità del sistema agricolo globale è oggi notevolmente alta e costantemente garantita dal progresso tecnologico con le sue innovazioni, l’effetto di compensazione è costantemente all’opera, come dimostrano gli aumenti della produzione agricola globale dal 1870 e delle rese globali dal 1961 delle serie storiche della FAO. Questo andamento è riportato nella Fig. 7 che mostra l’aumento della resa per ettaro registrato dal 1960 a oggi per quattro colture (mais, riso, soia e grano) responsabili del 64% dell’apporto calorico dell’umanità.

Fig. 7 – Serie temporale 1961-2019 delle rese medie globali (t/ha) per mais, riso, soia e grano

Analizzando le serie temporali delle rese medie globali (t/ha) di mais, riso, soia e grano per il periodo 1961-2019 si osserva un trend lineare positivo molto evidente pari, rispettivamente, al 3,3%, 2,4%, 2,6% e 3,8% all’anno per le quattro colture sopra citate. I principali motori di questa tendenza sono il progresso tecnologico e la  fertilizzazione con CO2.
Questo trend lineare è stato ottenuto sottraendo i dati che sono espressione di fenomeni di eventi estremi metereologici o metereologicamente guidati (ondate di calore, epidemie, freddo, siccità, alluvioni, ecc.) sottratto dei dati, ottenendo i residui che sono espressione di fenomeni come eventi estremi meteorologici o meteorologicamente guidati (ondate di calore, epidemie di freddo, siccità, alluvioni e così via). L’analisi dei dati residui che le deviazioni dal trend lineare non sono aumentate negli ultimi anni, il che porterebbe a escludere un aumento degli effetti degli eventi estremi.
In generale, un aumento della temperatura favorisce la crescita e la distribuzione delle specie infestanti, fornendo un ambiente caldo e umido e l’umidità necessaria per la loro crescita“, afferma Tek Sapkota, scienziato dei sistemi agricoli e dei cambiamenti climatici presso l’Istituto internazionale di miglioramento del mais e del grano. (CIMMYT). Egli ci spiega inoltre come quando le temperature e le precipitazioni diventano molto elevate, questo può rallentare la crescita e la riproduzione di alcune specie di parassiti e distruggerle mediante il lavaggio delle uova e delle larve dalla pianta ospite.

Possiamo concludere, insieme agli autori dell’articolo principale, ripreso in questa sezione news del manuale, che è necessario considerare che attualmente il nostro pianeta vive una fase calda e, finalmente, disponiamo di strumenti monitoraggio affidabili e conoscenze sul clima che ci permettono di valutare oggettivamente gli effetti dei suoi cambiamenti. Temere un’emergenza climatica senza che questa sia supportata da dati, significa alterare il quadro delle priorità con effetti negativi che potrebbero rivelarsi deleteri per la nostra capacità di affrontare le sfide del futuro, sperperando risorse naturali e umane in un contesto economicamente difficile, ancor più negativo dopo l’emergenza COVID. Questo non significa che non si debba fare nulla contro i cambiamenti climatici: è necessario che tutti i paesi del mondo collaborino insieme per ridurre al minimo il nostro impatto sul pianeta ed abbassare in modo determinante l’inquinamento dell’aria e dell’acqua.

Dal momento che come si svilupperà il clima del XXI secolo è un tema di profonda incertezza. Dobbiamo aumentare la nostra resilienza a qualsiasi cosa il clima futuro ci presenterà. Che si riesca o meno nei prossimi decenni a limitare drasticamente l’anidride carbonica, da molti considerata la responsabile principale dell’aumento dell’effetto serra, dobbiamo comunque ridurre comunque la nostra vulnerabilità agli eventi climatici e meteorologici estremi.

E’ bene inoltre affrontare i vari problemi in atto (energetici, agroalimentari, sanitari, ecc.) con uno spirito più obiettivo e costruttivo, così da valutare azioni senza sprecare le limitate risorse a nostra disposizione in soluzioni costose e inefficaci.


Testi

A critical assessment of extreme events trends in times of global warming –
Gianluca Alimonti (INFN & Università degli Studi, Milano), Luigi Mariani (DISAA Università degli Studi, Milano), Franco Prodi, Renato Angelo Ricci (Laboratori Nazionali di Legnaro, INFN, Università di Padova), The European Physical Journal Plus (2022) (vedi articolo e bibliografia completa su A critical assessment of extreme events trends in times)

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